quando si parla di calabria

Pubblicato il da camilliadi

Cosa ci dice Rosarno
La Calabria è al centro dei riflettori quando a Locri viene ucciso Francesco Fortugno. La Calabria si impone all'attenzione pubblica quando il tritolo è piazzato davanti alla Procura Generale di Reggio. La Calabria smuove il Governo e i ministeri quando Rosarno si trasforma nel teatro di una rivolta di migranti a cui risponde la rabbia dei residenti, dando vita ad una guerra civile fra dimenticati dallo Stato. Fa dolore dover ammettere che questa terra merita interesse solo di fronte al dramma, per cadere nel dimenticatoio politico e mediatico appena si sgonfia "la notizia" e, gattopardescamente, tutto ritorna all'ordinario disordine di sempre. Rosarno è una "banlieue" in salsa italica dove la commistione fra 'ndrangheta e imprenditoria porta a galla una condizione di sfruttamento che ha come soggetti, soprattutto nel Meridione, gli immigrati che lavorano a chiamata secondo le esigenze stagionali della terra. Uno schiavismo moderno che ha come artefici le 'ndrine calabre che si arricchiscono sulle spalle della vita migrante, favorite dal silenzio complice delle istituzioni locali e nazionali. Dopo esser stati sfruttati dalle mafie, senza che lo Stato intervenga, gli immigrati vengono trasformati comodamente in bersagli del malessere sociale della cittadinanza. Alla politica è utile, soprattutto quando al Governo siedono ministri che sulla logica della "caccia al diverso" hanno fondato il loro consenso elettorale, ricattando anche le componenti più democratiche e cattoliche (se ci sono veramente) della maggioranza. Così la politica si serve delle mafie, è complice del loro operato: la rabbia dell'immigrato sfruttato dal crimine può essere infatti utilizzata come catalizzatore di un identico sentimento, quello del calabrese dimenticato e lasciato solo dalle Istituzioni. Due sofferenze dunque intimamente connesse: l'immigrato e il cittadino sono entrambi costretti a sopravvivere in una realtà economica di sottosviluppo dove lo Stato e la Politica non esistono e sono le cosche a sopperire a questa latitanza. Nello scontro che monta in queste ore, si assiste ad una guerra tra dimenticati che pone domande di legalità e di integrazione. In primis ci obbliga a ripensare la connessione fra occupazione lecita e soggiorno regolare, quando l'economia italiana si fonda sull'ingiustizia del lavoro nero e a fronte dello sfruttamento straniero non riconosce diritti agli sfruttati di cui si serve. Abrogare dunque la legge Bossi-Fini ma anche le norme marketing del pacchetto sicurezza perchè ingiuste e inutili, e pensare a riconoscere la cittadinanza a chi lavora e vive nel nostro Paese, con la coscienza che non solo produce ricchezza materiale ma anche culturale, perché il processo multiculturale è figlio dei tempi e l'integrazione una necessità obbligata. Indispensabile è poi una battaglia per la legalità del lavoro, perché non sia più frutto di clientele e compravendite politico-mafiose ma diritto costituzionale da attuare. Perseguire infine la criminalità organizzata e la sua infiltrazione istituzionale senza titubanze, sfruttando il movimento di legalità che esiste in queste aree del paese e che vede coinvolta la società civile, i sindacati, le associazioni e i semplici cittadini. Perché in questa "guerra tra poveri", certamente i poveri perdono e le mafie vincono, condividendo gli indegni allori insieme al volto colluso di una certa politica
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